Articolo integrale

IL RUOLO DELLA MISURAZIONE NELLA VALUTAZIONE DEL RISCHIO DA ESPOSIZIONE A RADIAZIONI NON IONIZZANTI: CAMPI ELETTROMAGNETICI E RADIAZIONI OTTICHE

Gianluca Gambino, Alessandro Merlino, Gabriele Quadrio

CeSNIR SRL

Indice

Introduzione

La valutazione dei rischi derivanti dall’esposizione dei lavoratori a determinati fattori o agenti può richiedere un’attività tecnica volta a quantificarne l’esposizione.
Nel seguito ci proponiamo di considerare il ruolo di quest’attività ed i suoi obiettivi. Lo scopo è da un lato di riflettere su quando si renda necessario attivarla e dall’altro di capire quali obiettivi ci si può attendere di raggiungere. A questo ultimo proposito è dedicata una riflessione sugli aspetti di precisione delle misure ed è proposto di considerare le importanti differenze che sussistono tra l’ambiente controllato di un laboratorio di misura e l’ambiente di lavoro.
Si giunge quindi a considerare l’importanza ricoperta dalla definizione delle procedure di misura al fine di garantire l’affidabilità dei risultati dell’accertamento tecnico.
Nella seconda metà del lavoro sono affrontati specifici temi riguardanti la pratica della valutazione dei livelli di esposizione a campi elettromagnetici e a radiazioni ottiche, limitatamente a quelle non corenti.

Valutazione del rischio e valutazione dell’esposizione

La valutazione del rischio è lo strumento fondamentale che permette al datore di lavoro di individuare le misure di prevenzione e di pianificarne l’attuazione, il miglioramento ed il controllo al fine di verificarne l’efficacia e l’efficienza. La valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza assume un’importanza fondamentale tra le misure generali di tutela costituendo il presupposto dell’intero sistema di prevenzione.
Il primo passo nella la valutazione dei rischi correlati alla presenza di agenti fisici sul luogo di lavoro è quello di definire le condizioni di esposizione degli addetti stessi, identificando innanzitutto se siano tali da poter elevare la probabilità di raggiungere un livello potenziale di danno, oppure se si possano considerare sicure.
La valutazione dell’esposizione ad uno specifico agente, intesa come determinazione quantitativa dei livelli di esposizione, diventa necessaria innanzitutto quando non sia possibile affermare con certezza che le condizioni di esposizione sono sicure. In tal senso il legislatore è chiaro e vediamo come lo esprime disciplinando la materia della prevenzione e della protezione dei rischi fisici oggetto di queste riflessioni.
Con riferimento ai campi elettromagnetici, nella direttiva 2013/35/UE1, all’articolo 4, paragrafo 1, troviamo: “Il datore di lavoro valuta tutti i rischi per i lavoratori derivanti da campi elettromagnetici sul luogo di lavoro e, se del caso, misura o calcola i livelli dei campi elettromagnetici ai quali sono esposti i lavoratori”.
In merito ai rischi derivanti dall’esposizione alle radiazioni ottiche artificiali, nel Decreto Legislativo 81/08, all’articolo 26, comma 1 si trova scritto : “Nell’ambito della valutazione dei rischi di cui all’articolo 181, il datore di lavoro valuta e, quando necessario, misura e/o calcola i livelli delle radiazioni ottiche a cui possono essere esposti i lavoratori”.
Il legislatore prevede quindi che i livelli di esposizione ai campi elettromagnetici o alle radiazioni ottiche (NIR2) siano quantificati quando questo sia necessario per stabilire il livello di rischio. Per la quantificazione di detti livelli prevede che possano attuarsi misurazioni e/ o calcoli.

Ruolo delle misurazioni

Il ruolo della misurazione o, più in generale, della determinazione quantitativa del livello di esposizione, è pertanto quello di coadiuvare il datore di lavoro nella definizione del livello di rischio ed è quindi intuitivo che tali attività sono da compiersi quanto non sia possibile affermare con certezza che il rischio sia basso o, comunque, quando questo non sia noto con certezza; in alcuni casi anche la certezza che il rischio sia molto alto può rendere inutile quantificarlo.
Diventa necessario pervenire ad una valutazione quantitativa dell’esposizione quando il livello di rischio non sia determinabile altrimenti o quando occorra conoscere i livelli di esposizione per dimensionare gli interventi di riduzione. Tutto questo il legislatore lo anticipa con le espressioni “se del caso” e “quando necessario”.
Nella direttiva sulla protezione dai campi elettromagnetici si trovano ulteriori specificazioni sulle opportunità che esistono per il datore di lavoro di condurre una valutazione dei rischi senza ricorrere alle misurazioni; ad esempio che “il datore di lavoro ha diritto di tenere conto, se del caso, dei livelli di emissione e di altri dati appropriati relativi alla sicurezza forniti per le attrezzature dal fabbricante o dal distributore […] ove applicabile alle condizioni di installazione sul luogo di lavoro o sul luogo di installazione” (vedi art. 4, par. 2). Inoltre, al successivo paragrafo 3 il legislatore europeo aggiunge che “se non è possibile stabilire con certezza il rispetto dei VLE3 sulla base di informazioni facilmente accessibili, la valutazione dell’esposizione è effettuata tramite misurazioni o calcoli”.
Si può quindi affermare che la valutazione dell’esposizione è funzionale alla valutazione del rischio e che è però quest’ultima l’unica valutazione strettamente necessaria al datore di lavoro, mentre la prima non è detto che sia da condurre.
Consideriamo degli esempi, che riportiamo dalla nostra esperienza come consulenti.
Gli access point delle reti wireless-LAN (Wi-Fi) sono sorgenti di campo elettromagnetico che, talvolta, destano l’interesse dei SPP dei palazzi uffici, in relazione ai possibili rischi che dall’esercizio di questi apparati possono derivare. La norma tecnica CEI EN 50499:2009 riporta questi apparati nella tabella 1, ovvero la tabella delle apparecchiature la cui emissione elettromagnetica può considerarsi sicura a priori, senza necessità di condurre un accertamento tecnico.

Figura 1. Norma CEI EN 50499:2009, Tabella 1 (stralcio)

Sotto il profilo giuridico il datore di lavoro è del tutto legittimato a concludere la valutazione del rischio connesso con l’esposizione alle emissioni elettromagnetiche di questi apparati, semplicemente censendo la sorgente ed invocando l’art. 181, comma 3, del D.Lgs 81/08 che autorizza il datore di lavoro a non condurre approfondimenti quando sia possibile escludere rischi per la salute a mezzo di una valutazione semplificata4. La valutazione dell’esposizione, in questo caso, si ferma alla valutazione delle condizioni di esposizione, dal momento che queste risultano sicure.
Tuttavia è frequente che il SPP ritenga di più grande valore una misura dei livelli di esposizione, a maggior ragione se la stessa è sollecitata dai lavoratori. In realtà una misurazione, condotta con la miglior strumentazione disponibile per la valutazione dell’esposizione umana ai campi elettromagnetici, non è in grado di aggiungere valore alla valutazione aprioristica di cui sopra e questo per almeno due motivi. Il primo è che detta strumentazione ha una sensibilità inferiore a quella necessaria per poter osservare un campo elettromagnetico di intensità bassa come quella riscontrabile a qualche decina di centimetri da un access point di una rete Wi-Fi. Il secondo è che la stessa strumentazione è tecnologicamente inadeguata a misurare correttamente dei segnali di questa natura (Rodríguez de la Concepción, 2012).
La misurazione del livello di emissione elettromagnetica da parte di questi apparati può sembrare comunque utile, per lo meno per poter affermare che l’esposizione è molto bassa, ma in virtù della inadeguatezza della strumentazione di misura a questo particolare tipo di segnali, non è vero nemmeno questo. L’esposizione è sì trascurabile, ma una misurazione condotta anche con le migliori apparecchiature dedicate alla misurazione dei livelli di campo elettromagnetico a fini sanitari, non fornisce un contributo utile per affermarlo.
Un altro esempio circa il superfluo ricorso alle misurazioni è quello della determinazione dell’esposizione del saldatore alla radiazione ottica derivante dalla saldatura ad arco elettrico. Si tratta di un caso per il quale letteratura autorevole (Coordinamento Tecnico per la Sicurezza delle Regioni e delle Province autonome, 2014, punto 5.07) ma anche la stessa norma tecnica di settore (UNI, 2005) fornisce certezza del superamento dei valori limite di esposizione e la norma tecnica UNI EN 169:2003 (Filtri per la saldatura e tecniche connesse. Requisiti di trasmissione e utilizzazioni raccomandate) fornisce un prospetto per l’individuazione del corretto DPI oculare sulla base della tecnica di saldatura e della corrente erogata dal generatore (prospetto A.3). La misurazione non risulta quindi necessaria, considerato che si ha certezza del superamento dei limiti e che l’individuazione del corretti dispositivi di protezione individuale (imprescindibili per il saldatore) non richiede di conoscere i livelli di esposizione.
Rimane invece questione aperta quella di determinare l’esposizione del saldatore quando utilizzi tecniche di saldatura non comprese nel prospetto A.3 della UNI EN 169:2003 o quella di determinare l’esposizione di soggetti terzi rispetto al saldatore; in questi casi la misurazione è necessaria5.

Figura 2. Norma UNI EN 169:2003, Prospetto A.3

Occorre infine cautela nel considerare la misurazione come il metodo elettivo di determinazione dei reali livelli di esposizione. Anche assumendo che il valutatore disponga di strumentazione che rappresenti lo stato dell’arte nel proprio settore, la misurazione potrebbe essere considerata tale in condizioni ideali di riferibilità della misura, di disponibilità di una procedura certa e, naturalmente, della completa padronanza della materia da parte del valutatore.

Obiettivo delle misurazioni

Quando la valutazione del rischio richiede la valutazione quantitativa dell’esposizione, al valutatore è richiesto ben più della disponibilità della strumentazione di misura. L’elemento essenziale è la capacità di intercettare e riconoscere i fattori che più incidono sul risultato. La definizione di una procedura di accertamento è prioritaria anche sulla precisione della catena di misura. Quest’ultimo fattore, anzi, ha meno rilevanza di quanto solitamente gli si attribuisca e proviamo di seguito ad argomentare il nostro punto di vista.
La precisione di un sistema di misura è correlata all’incertezza della misura, tuttavia all’incertezza contribuiscono numerose fonti e, per ciò che attiene alle determinazioni dei livelli di esposizione agli agenti fisici nei luoghi di lavoro, la precisione della strumentazione è raramente la principale.
L’ambiente di lavoro, infatti, non ha alcuna delle caratteristiche di riferibilità di un ambiente controllato qual è un laboratorio, ovvero un ambiente del quale siano sotto controllo i parametri che potrebbero interferire con la misurazione che stiamo conducendo ma, anzi, è il contrario ed è frequente che manchi addirittura il controllo sulle altre sorgenti del medesimo agente di cui stiamo conducendo la misurazione. Questo significa che è estremamente difficile dare completa descrizione delle condizioni di misura e riferire compiutamene la misura ad un preciso set di variabili relative alle condizioni del misurando ed alle sue condizioni al contorno. Questa mancanza di riferibilità rende la misura scarsamente riproducibile e con un’incertezza determinabile solo parzialmente. Ecco che la classe di precisione della strumentazione risulta quindi un elemento secondario perché non risulta definibile una classe di precisione dell’ambiente di prova.
Evidentemente, siccome non tutti gli ambienti di lavoro sono uguali, esisteranno situazioni in cui ottenere una misura riferibile a specifiche condizioni di lavoro e dell’ambiente è particolarmente difficile ed altre in cui si rende possibile (si consideri ad esempio la differenza che corre, in termini di riferibilità ad una condizione nota, tra una carpenteria con lavorazioni manuali ed una linea di produzione robotizzata).
C’è però un altro importante elemento da considerare: il criterio con il quale il valutatore individua le macchine e i compiti lavorativi da includere nei propri accertamenti. A nulla serviranno misure precise se l’accertamento, nel suo complesso, non include tutte le più significative condizioni di esposizione di tutti i lavoratori (o di un loro campione significativo). In sostanza la valutazione complessiva di un livello di esposizione si compone di più osservazioni e di queste, la misurazione delle immissioni dello specifico agente in corrispondenza del posto di lavoro, ne rappresenta una.
Si potrà quindi avere l’obiettivo ambizioso di conoscere il livello di esposizione di un addetto entro un’incertezza nota nei contesti più semplici (ad esempio un addetto esposto alle emissioni di una singola sorgente, impiegata sempre con le medesime modalità di esercizio) e negli altri casi sarà probabilmente ragionevole tentare di restituire quale sia l’esposizione più significativa (la massima o la più probabile a seconda dei casi) per la quasi totalità degli addetti e non è detto che un risultato affidabile sia garantito dall’uso di strumentazione con alta classe di precisione o con l’applicazione di una procedura dal rigoroso impianto statistico, dal momento che le variabili che non sotto il controllo del valutatore potrebbero annichilire buona parte delle iniziative di limitazione delle incertezze.
Probabilmente, nel quadro ampio della valutazione di un livello di esposizione ad un agente fisico, è più utile spostare l’attenzione dalla precisione delle misure all’affidabilità del risultato dell’accertamento tecnico complessivo. Al SPP occorrono infatti risultati affidabili, sulla base dei quali poter fondare la progettazione delle migliori iniziative di prevenzione e protezione.
Riteniamo che un risultato sia affidabile se può innanzitutto garantire che l’esposizione reale di ogni addetto non superi il livello assunto quale riferimento. In subordine l’affidabilità del risultato è connessa alle garanzie che le cautele (inevitabili), adottate in fase di determinazione dei livelli di esposizione per avere certezza di non sottostimare l’esposizione, siano state opportunamente dosate per non rischiare di caricare il datore di lavoro di costi per risanamenti inutili o i lavoratori di procedure e/o di dispositivi di protezione superflui.
Nell’ambito della valutazione dei livelli di esposizione ad un agente fisico, l’elemento di maggior rilevanza al fine di ottenere risultati affidabili, così come descritti sopra, è la procedura di misura. Tuttavia, allo stato attuale dell’evoluzione della normativa tecnica che concerne le radiazioni non ionizzanti, la più corretta procedura di lavoro è ancora qualcosa che il valutatore deve costruire sulla base della propria esperienza e questo rappresenta un grosso limite; l’esperienza del valutatore non può infatti rappresentare un elemento essenziale per la corretta riuscita delle determinazioni e lasciare che la procedura dell’accertamento tecnico sia definita dal singolo rende il processo intrinsecamente debole e, nel peggiore dei casi, inaffidabile.
Nel seguito sono affrontai alcuni aspetti da noi considerati cruciali nel processo di determinazione dei livelli di esposizione ai campi elettromagnetici ed alle radiazioni ottiche artificiali sui luoghi di lavoro.
Tra questi non trova posto il metodo per la quantificazione dell’incertezza di misura. Come detto sopra, trattare questo argomento non rientra tra le priorità di questo lavoro, ma desideriamo far notare che nelle norme tecniche di riferimento (CEI, 2009, UNI, 2005, 2006) manca un metodo di calcolo di questa quantità, pur trovando, nelle stesse norme, evidenziata la necessità che ogni misura sia accompagnata da questo dato.

Campi elettromagnetici

In questa parte del lavoro ci soffermiamo su alcuni degli aspetti che riteniamo più critici della procedura di accertamento dei livelli di esposizione ai campi elettromagnetici e che individuiamo nei seguenti:

  • caratterizzazione delle esposizioni in campo vicino;
  • combinazione degli effetti dovuti a campi di frequenza diversa;
  • individuazione delle fasi di lavoro più significative ai fini della misurazione;
  • effetti delle componenti transitorie.

È innanzitutto utile ricordare che i campi elettromagnetici, intesi come agente fisico di rischio per le esposizioni occupazionali, si suddividono in due macro categorie: quella dei campi correlati con gli effetti di stimolazione elettrica e quella dei campi responsabili di effetti termici. Alla prima categoria appartengono i campi statici, quelli dinamici impulsati e quelli dinamici periodici, sinusoidali o non sinusoidali (forme d’onda complesse) con frequenza sino a 10 MHz; alla seconda quelli dinamici periodici, sinusoidali o non sinusoidali, con frequenza superiore a 100 kHz (i campi elettromagnetici con frequenza compresa tra 100 kHz e 10 MHz possono dar luogo a entrambi gli effetti)6.
In ambito occupazionale l’esposizione degli addetti avviene quasi sempre in campo vicino; questo è sempre vero per le sorgenti di campo elettromagnetico alla frequenza di rete di 50 Hz, per gli usi industriali e medicali dei campi elettromagnetici nel range di frequenze 100 kHz – 3 MHz, ma anche per gli usi dei campi a 6, 13 e 27 MHz, considerato che l’addetto è normalmente al lavoro vicino al dispositivo che è sorgente del campo7. Potrebbero aversi delle esposizioni in condizione di campo lontano o, per lo meno, vicino ma radiativo, nel settore delle telecomunicazioni, ma normalmente queste si sommano a quelle in condizioni di campo vicino, anche reattivo.
La valutazione dell’esposizione in condizioni di campo vicino richiede innanzitutto di definire i punti di campionamento nella singola postazione di misura; infatti, in questa regione, a piccoli spostamenti della sonda (anche frazioni di centimetro) corrispondono grandi variazioni del valore di campo misurato (elettrico o magnetico). A questo fine va ricordato che gli effetti di stimolazione elettrica che è fondamentale prevenire sono a carico del sistema nervoso centrale, mentre nel caso degli effetti termici sono un target sensibile anche gli arti. Il primo passo per tentare di restituire una valutazione affidabile dell’esposizione è quindi quello di definire i punti di campionamento in corrispondenza della posizione dell’addetto. Ad oggi non sono ancora previste procedure che prevedano l’esecuzione di medie spaziali (procedure attese per gli inizi del 2016 con le guide pratiche previste dall’articolo 14 della direttiva 2013/35/UE) e pertanto si procede, normalmente, con la ricerca dei punti in cui può risultare massima l’esposizione della testa e del tronco nel primo caso ed anche degli altri nel secondo (Coordinamento Tecnico per la Sicurezza delle Regioni e delle Province autonome, 2014, punto 4.13).
Il secondo elemento citato sopra, tra quelli critici nella procedura di valutazione dell’esposizione a campi elettromagnetici, è quello relativo alla completezza della valutazione circa la possibile combinazione di effetti della stessa natura, dovuti ad esposizioni a campi elettromagnetici a frequenza diversa.
La stimolazione elettrica dei tessuti o il loro riscaldamento sono evidentemente aggravati in presenza di campi elettromagnetici, anche di frequenza diversa ma compresi nella banda di frequenze a cui è attribuito lo stesso tipo di effetto. Non costituisce invece una condizione di esposizione aggravata la compresenza di un campo elettromagnetico alle frequenze responsabili degli effetti di stimolazione elettrica e di un campo elettromagnetico alle frequenze cui sono correlati gli effetti termici (anche se il rischio risulta invece aggravato perla contemporanea presenza di più fattori di rischio).
Si rischia però di perdere il bandolo della matassa perché, anche considerando separatamente i due tipi di effetti, non è definito un unico livello limite ma anzi, i limiti si presentano variabili per bande di frequenza e in alcune bande anche variabili con continuità al variare della frequenza. Quando il valutatore avvicina questa materia è facilmente tratto in inganno da questa organizzazione dei livelli di riferimento (livelli di azione e valori limite) ed è portato a credere che se tutte le componenti in frequenza rispettato i corrispondenti limiti, l’esposizione sia complessivamente conforme.
Questo errore procedurale è in parte comprensibile se si considera che il campo elettromagnetico è l’unico agente per il quale non è stata studiata una curva di pesatura, com’è invece stato fatto per il rumore, le vibrazioni e le radiazioni ottiche, che consentisse di definire un unico livello di esposizione per tutto l’intervallo di frequenze (o lunghezze d’onda) responsabili dei medesimi effetti. Nel caso di rumore e vibrazioni, esiste un unica soglia (declinata poi in livelli di azione e valori limite) per tutta la gamma delle frequenze capaci di generare effetti avversi per la salute umana e il livello di esposizione determinato dal valutatore è direttamente confrontato con questa soglia, previa pesatura dei livelli raggiunti in specifiche bande di frequenza (pesatura compiuta dalla strumentazione stessa). Nel caso delle radiazioni ottiche esistono invece limiti diversi per diverse bande di lunghezze d’onda, ma il rispetto di ognuno di questi, singolarmente, garantisce che l’esposizione complessiva si possa considerare sicura (nella banda UV, visibile e IR esiste poi una curva di pesatura con la quale trattare i livelli spettrali).

Figura 3. Esempio dell’emissione magnetica di un riscaldatore a induzione. L’ampiezza di ogni componente in frequenza rispetta il corrispondente valore di azione (pari a 100 T nel range di frequenze 3 kHz – 100 kHz, secondo la direttiva 2013/35/UE) ma l’esposizione globale alle diverse componenti in frequenza, calcolata secondo la (1) eccede di poco l’esposizione massima consentita dal complesso dei valori di azione.

La valutazione degli effetti complessivi delle diverse componenti in frequenza dei campi elettromagnetici è invece da compiersi combinando opportunamente i livelli raggiunti da ognuna e la conformità con i valori limite di esposizione è valutata tramite degli indici adimensionali, costruiti pesando i livelli delle diverse componenti con i rispettivi limiti (ICNIPR 1998, ICNIRP 2010). Per esempio, la valutazione del rispetto dei limiti complessivamente previsti per i campi magnetici nel range di frequenze compreso tra 1 Hz e 10 MHz, si valuta calcolando gli indici, storicamente detti indici ICNIRP, definiti dalla (1).

(1)

dove:
Ai : intensità del campo elettrico/magnetico alla frequenza i;
AL,i : livello di riferimento ICNIRP, ovvero livello di azione inferiore per il campo elettrico/magnetico alla frequenza i (direttiva 2013/35/UE);
Il complesso dei limiti risulta rispettato se gli indici assumono valore inferiore a 1, raggiunti se raggiungono l’unità e superati se risultano maggiori di 1.
Questo metodo di valutazione è detto metodo standard.

La strumentazione più moderna dovrebbe essere in grado di fare questa valutazione autonomamente, ma questo richiede comunque un puntuale addestramento del valutatore.
Veniamo al terzo punto: l’individuazione delle fasi di lavoro più significative ai fini della misurazione. L’esposizione ai campi elettromagnetici ai fini della valutazione di possibili effetti di stimolazione elettrica, considerato che questi sono effetti a soglia, è da compiersi su base istantanea; la valutazione degli effetti termici va invece estesa a quel periodo di tempo entro il quale un rialzo termico non compensato dall’organismo può diventare pericoloso, ovvero 6 minuti. Nel primo caso non vi è quindi alcuna operazione di media da compiersi sui valori misurati, ma è però necessario accertarsi che di aver colto l’istante di massima esposizione. Nuovamente è quindi fondamentale compiere un’attenta valutazione del processo di lavoro al fine di intercettare i momenti di massima esposizione, anche se brevi. Questo implica di tenere conto degli azionamenti delle macchine elettriche, se questi richiedono la presenza di un operatore, così come è necessario considerare il regime in cui si trova l’impianto al momento delle misurazioni (quest’ultima considerazione è quasi ovvia ma se si tiene conto che il campo elettromagnetico è l’unico agente per il quale non c’è un senso umano in grado di percepirlo, si capisce che non si possa dare per scontato che le osservazioni avvengano sempre in condizioni di massimo regime). A titolo di esempio si consideri una saldatura ad arco elettrico: l’esposizione più critica è sicuramente quella che si ha quando viene innescato l’arco e questa può superare di decine di volte quella riscontrabile nel corso del processo di saldatura. Oppure si consideri una cabina elettrica di trasformazione: l’esposizione qui valutata dipende evidentemente da qual è il carico di energia richiesto dalle utilizzazioni alla cabina stessa, nel momento delle misurazioni; se questa poi serve solo una parte dell’impianto aziendale è fondamentale accertare che stia effettivamente erogando energia.
Veniamo infine alla valutazione dell’esposizione a campi caratterizzati da componenti transitorie.
Nel caso di campi pulsati o con forma d’onda complessa, il metodo standard di cui sopra, che prevede l’analisi scalare in frequenza delle intensità, mostra un limite intrinseco (nelle figure da 4 a 7 sono forniti esempi di tali segnali, tratti dal sito Internet www.agentifisici.it). Il metodo adeguato a questi ultimi casi è quello detto del picco ponderato, introdotto dallo statement ICNIRP del 2003 e ripreso nella revisione 2010 delle linee guida sui campi con frequenza sino a 10 MHz (ICNIRP, 2010). La differenza basilare tra il metodo standard e quello del picco ponderato sta nel fatto che il primo metodo postula la coincidenza nel tempo dei picchi di tutti i singoli contributi spettrali, mentre il secondo no.
Il metodo del picco ponderato può essere anche implementato nel dominio del tempo bypassando il calcolo della trasformata di Fourier del segnale, che presenta non poche difficoltà al momento di applicarla ai segnali reali.
Per applicare il metodo del picco ponderato nel dominio del tempo, ciascuna componente cartesiana del campo deve essere fatta passare attraverso una catena di filtri con guadagno variabile in frequenza e proporzionale all’inverso dei livelli di riferimento ICNIRP tra 1 Hz e 100 kHz (si tenga presente che i livelli di riferimento della revisione 2010 coincidono con i livelli di azione inferiori della direttiva 2013/35). All’uscita di una siffatta catena si ottiene un indice (variabile nel tempo) che restituisce il rispetto delle prescrizioni normative se minore di 1.
Il processo può essere implementato sia per via analogica, cioè in hardware all’interno della sonda di misura, sia per via numerica, cioè elaborando al computer le forme d’onda acquisite con una sonda a risposta piatta e successivamente campionate, ma questo secondo metodo per questioni di praticità e validazione è sostanzialmente utilizzabile solo per finalità di ricerca, mentre per le valutazioni di igiene industriale si ricorre a strumentazione che lo implementa a bordo.

Figura 4. Diagramma temporale del campo magnetico emesso durante una magnetoterapia transcranica.


Figura 5. Diagramma temporale del campo elettrico emesso durante una tecar terapia in modalità capacitiva.


Figura 6. Diagramma temporale del campo magnetico emesso da una saldatrice ad elettrodo.


Figura 7. Diagramma temporale del campo magnetico emesso da una saldatrice GMAW.

Nello statement ICNIRP del 2003, il metodo del picco ponderato è stato proposto per le forme d’onda coerenti (ovvero con precise relazioni di fase tra i diversi contributi in frequenza) e, soprattutto, periodiche ma, viste le sue caratteristiche, nella revisione 2010 delle linee guida viene presentato come opzione alternativa applicabile a qualsiasi forma d’onda regolare o complessa, con spettro compreso tra 1 Hz e 100 kHz (Andreuccetti et al, 2010).
Allo stato attuale bisogna però evidenziare che il metodo è definito solo nel range di frequenze 1 Hz – 100 kHz e non nell’intero intervallo di frequenze in cui devono essere verificati gli effetti non termici, che arriva sino a 10 MHz.
Si aggiunge infine che nelle istruzioni operative sugli agenti fisici (Coordinamento Tecnico per la Sicurezza delle Regioni e delle Province autonome, 2014) al punto 4.16 è riferito che il metodo del picco ponderato è quello di elezione per la valutazione dei segnali multifrequenza in genere, ma che è sempre possibile applicare la regola della somma delle frequenze, con l’avvertenza che detta metodologia può in diversi casi produrre valutazioni molto conservative. Segnaliamo però che prove di misurazioni svolte dagli scriventi con entrambi i metodi, su segnali caratterizzati da fortemente impulsive, hanno mostrato che con il metodo standard può accadere che la sonda non riveli per niente la componente transitoria, sottostimando quindi l’esposizione e non il contrario.

Radiazioni ottiche artificiali non coerenti

Sotto il profilo tecnico l’igienista che oggi affronta una misurazione dei livelli di esposizione alle radiazioni ottiche non coerenti trova la maggior difficoltà nella verifica dei limiti in radianza. Si tratta di una misura del tutto analoga alla quella di luminanza (che però è una grandezza fotometrica, mentre la radianza è una grandezza radiometrica); come la luminanza, la radianza è una caratteristica della sorgente ed è un invariante rispetto alla distanza da questa, lungo una fissata direzione. Un radiometro tarato in radianza si dovrebbe presentare quindi come un luminanziometro, ovvero con un’ottica di raccolta in grado acquisire la potenza radiante entro un preciso angolo di accettanza e un sistema di puntamento che consenta di stabilire con precisione quale sia l’area della sorgente oggetto di misurazione. Tuttavia i produttori di strumentazione non hanno ancora proposto dei radiometri di questo tipo, adeguati per una valutazione negli ambienti di lavoro. Il mercato ha proposto più soluzioni per la strumentazione ma spesso mutuando strumenti nati per misure da laboratorio e sviluppati per sorgenti specifiche (prime fra tutte le lampade per le quali esiste una norma tecnica di prodotto per la verifica della sicurezza fotobilogica). L’utilizzo di questa strumentazione in campo, soprattutto nel contesto industriale, presenta alcune difficoltà d’ordine pratico legate, per esempio, alla sua fragilità, alla scarsa maneggevolezza, al limite di saturazione (overload), nonché ai costi che sono piuttosto elevanti, a maggior ragione se si tiene conto che normalmente questi strumenti coprono solo una frazione dello spettro entro il quale è richiesto di valutare il rischio (180 – 3000 nm).
Ad oggi risulta solo un dispositivo progettato specificatamente per la valutazione dell’esposizione occupazionale alle radiazioni ottiche non coerenti; si tratta di uno strumento costituito da un sistema di radiometri a banda larga, equipaggiati con un correttore al coseno, il cui uso è limitato alla misurazione della irradianza. I radiometri sono dotati di appositi filtri per restituire, nella bande in cui è richiesto, direttamente l’irradianza pesata secondo le curve S(λ), B(λ), R(λ).
Questo tipo di strumentazione consente di compiere una valutazione dell’irradianza nelle bande dell’UV, del visibile e dell’IR, nel rispetto dei criteri definiti dalle norme tecniche di riferimento (UNI, 2005, 2006) ma presenta dei limiti per la valutazione dell’esposizione nella banda di lunghezze d’onda tra 300 e 1400 nm quando il valore limite di esposizione è espresso in radianza. In questi casi la normativa tecnica non fornisce alternative alla misurazione diretta della radianza. La stessa norma, rifacendosi alle prime linee guida ICNIRP (ICNIRP, 1996) richiede che il radiometro abbia un angolo di accettanza minimo pari a 1.7 mrad per la valutazione del rischio termico per la retina (LR tra 380 e 1400 nm) e un angolo di accettanza minimo di 11 mrad per la valutazione del rischio retinico di natura fotochimica, derivante da sorgenti estese (LB tra 300 e 700 nm). L’uso di strumenti con angoli di accettanza maggiori porrebbe dei limiti alle minime dimensioni delle sorgenti su cui poter fare la valutazione e inoltre non consentirebbe di valutare eventuali disuniformità (hotspots) nella radianza della sorgente (valutazione al momento spesso trascurata nella pratica di igiene industriale). Nella revisione 2013 delle linee guida ICNIRP (ICNIRP, 2013) gli angoli di accettanza da adottare per le misurazioni della radianza sono stati modificati, proponendo valori compresi tra 11 e 110 mrad per la luce blu e valori compresi tra 5 e 11 mrad per l’infrarosso (la variazione dell’angolo di accettanza è legata al tempo di osservazione della sorgente).
Di fatto oggi, per realizzare una misurazione di questo tipo, si dovrebbe aggiungere alla strumentazione citata sopra un altro radiometro, se a banda larga dotato di opportuni filtri di pesatura, se spettrale con una risposta in lunghezza d’onda che arrivi sino a 1200 nm (soglia superiore di quelli con sensore CCD), dotato di un dispositivo di regolazione dell’angolo di accettanza (ad esempio un tubo di Gershun) e di un sistema di puntamento che sia in grado di mostrare la porzione di superficie della sorgente oggetto di misurazione. Un tale setup di misura, di cui sia stata anche verificata l’effettiva utilizzabilità per la misurazione dei livelli che si possono sperimentare su luoghi di lavoro, non ci è noto.
Nelle istruzioni operative sugli agenti fisici (Coordinamento Tecnico per la Sicurezza delle Regioni e delle Province autonome, 2014) all’allegato 5.4 si richiama anche un altro metodo, parzialmente derivato da quello proposto nella norma sulla sicurezza fotobiologica delle lampade (CEI, 2010) che prevede di eseguire una misura di irradianza, eventualmente anche con un radiometro su cui sia presente un correttore al coseno, procedendo a schermare la parte della sorgente che eccede l’angolo di accettanza; questo implica che il diametro dell’apertura che limita la superficie della sorgente visibile dal radiometro (circolare per semplicità) e la distanza radiometro-schermo, devono essere in un rapporto tale da ricreare l’angolo di accettanza desiderato (ad esempio utilizzando un’apertura del diametro di 11 mm e sistemando il radiometro alla distanza di 1 m per ottenere un angolo di accettanza di 11 mrad). A partire dalla misura così compiuta, dividendo il valore di irradianza misurato per l’angolo solido definito dal sistema di limitazione dell’angolo di accettanza, si ottiene il valore della radianza riferita allo sorgente sotto esame nella direzione della misura.
Il problema di questo sistema, interessante per la semplicità ed anche per i bassi costi di implementazione, è, nuovamente, la scarsa utilizzabilità in campo. Si presta bene in laboratorio, dove il valutatore può disporre della sorgente nei modi e per i tempi a lui più congeniali e nei casi in cui la sorgente stessa può essere avvicinata a piacimento, perché è raccomandabile che lo schermo sia a questa il più prossimo possibile, se non appoggiato.
Un altro aspetto delicato della valutazione dell’esposizione alle radiazioni ottiche è, come per altri agenti fisici, la determinazione dei tempi di esposizione. I valori limite di esposizione dipendono infatti dal tempo di esposizione e diventano più restrittivi all’aumentare di questo.
A questo scopo occorre tenere in debita considerazione quale esposizione genera la condizione di rischio; i valori limite di esposizione sono infatti distinti, oltre che in base alla lunghezza d’onda della radiazione, anche in base al target sensibile umano.
I target sensibili sono la cute e l’occhio e di quest’ultimo si possono però distinguere la parte esterna, che include cornea, congiuntiva e cristallino e la parte interna, che si identifica con la retina.
Pertanto per cute e parte esterna dell’occhio la mera esposizione dell’organo sensibile alla radiazione costituisce condizione di rischio, mentre per la retina, la condizione di rischio si ha quando su questa si forma l’immagine della sorgente (immagine retinica), ovvero quando l’immagine viene direttamente osservata e messa a fuoco. È pur vero che se esiste una sorgente nel campo visivo dell’addetto si deve assumere che possa anche essere osservata, ma nel calcolo del tempo di esposizione bisogna considerare solo il tempo di osservazione. Questo ha inoltre ripercussioni pratiche sulle procedure di sicurezza.

Figura 4. Tabella riepilogativa dei rischi e dei target del corpo umano a questi sensibili, suddivisi per bande di lunghezze d’onda.

Nel caso di esposizione a radiazione ultravioletta, il tempo di esposizione deve essere considerato cumulando le diverse esposizioni all’interno della medesima giornata lavorativa e il legislatore pone un valore limite riferito ad un’esposizione di otto ore. Le modalità per la determinazione dell’esposizione dei lavoratori in queste bande di lunghezze d’onda sono dettata dalla norma tecnica UNI EN 14255-1 e la verifica del rispetto degli indici a. e b. non pone particolari difficoltà.
Per la verifica degli indici riferiti all’esposizione alla luce blu (indici c., d., e, ed f.) vi sono alcuni aspetti che devono ancora trovare un’interpretazione e servirebbe un chiarimento sulle procedure di valutazione. Considerando infatti che la luce blu può dar luogo sia a lesioni di tipo termico che fotochimico, si desume che per la prevenzione delle seconde debba essere valutata un’esposizione cumulativa, analogamente a quanto fatto per la radiazione UV; tuttavia su questo aspetto non ci sono al momento indicazioni nella documentazione tecnica di settore8.
Al momento rimane quindi al valutatore di decidere se valutare i livelli di esposizione considerando il cumulo delle esposizioni giornaliere per la retina, ricordato che in tal senso dovranno essere conteggiate comunque solo i tempi di osservazione della sorgente, senza prendere in considerazione la mera esposizione dell’addetto quando non c’è proiezione dell’immagine della sorgente sulla retina9.
In merito agli effetti di tipo termico, attribuiti nuovamente alla luce blu ma anche alla radiazione infrarossa, sussiste infine il dubbio di come tenere conto dei tempi di rilassamento dei tessuti riscaldati e quindi come trattare esposizioni successive.
Considerata infatti l’inerzia dei tessuti biologici ad assorbire e cedere calore, si dovrebbe tenere conto che sollecitazioni termiche ripetute possono dar luogo ad un effetto aggravato se i tessuti non si sono raffreddati tra una e l’altra.
Nella revisione 2013 delle linee guida ICNIRP ha fornito un chiarimento in merito e sancisce il principio di base secondo il quale ogni esposizione deve semplicemente risultare inferiore al limite applicabile per lo specifico tempo di esposizione. Di fatto, il momento in cui questo dato deve essere determinato con cautela è quello del calcolo della trasmissività degli eventuali oculari di protezione, definita dal rapporto tra il valore limite applicabile alla specifica esposizione (che dipende la tempo di esposizione) e il valore della irradianza o radianza correlata con detta esposizione. Potrebbe essere ragionevolmente cautelativo, nel caso di esposizioni ripetute a distanza ravvicinata, considerare come tempo di osservazione la somma dei tempi di ogni singola esposizione; ottenuta la trasmissività del dpi oculare si può infine verificare che non dia luogo ad una iper-protezione, ad esempio verificando che non diminuisca la capacità dell’addetto di lavorare in modo sicuro a causa della ridotta visibilità.

Conclusioni

La valutazione dell’esposizione ad uno specifico agente è necessaria quando non sia possibile affermare con certezza che le condizioni di esposizione sono sicure. Quest’attività si presenta come un procedimento articolato e di cui la misurazione dei livelli di immissione in corrispondenza del posto di lavoro rappresenta solo uno dei passaggi.
I risultati di questa attività tecnica devono consentire al SPP di progettare le più adeguate misure di prevenzione e protezione e a questo fine si è voluto evidenziare che la precisione delle misure non è un requisito sufficiente a garantire che la valutazione complessiva dell’esposizione sia affidabile.
I due agenti presi in considerazione, campi elettromagnetici e radiazioni ottiche artificiali (non coerenti) presentano alcune criticità nel processo dell’accertamento tecnico che devono essere considerate attentamente. Il lavoro le richiama entrando nel merito degli approcci che si sono nel tempo consolidati per affrontarle correttamente e, in taluni casi, evidenziando cosa richiederebbe un ulteriore approfondimento.

Bibliografia

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Coordinamento Tecnico per la Sicurezza delle Regioni e delle Province autonome (2014). Decreto Legislativo 81/2008, Titolo VIII, Capo I, II, III, IV e V sulla prevenzione e protezione dai rischi dovuti all’esposizione ad agenti fisici nei luoghi di lavoro. Indicazioni operative.

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ICNIRP (1998). Guidelines for Limiting Exposure to Time-Varying Electric, Magnetic, and Electromagnetic Fields (up to 300 GHz). Health Physics, 74(4), 494-522.

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Rodríguez de la Concepción A., Renga D., Stefanelli R., Trinchero D. (2012) Un metodo efficace, a bassissimo costo, per il monitoraggio dell’esposizione a reti WLAN in ambienti ad alta complessità, Atti del V Convegno Nazionale sugli Agenti Fisici (Novara 6-8 giugno 2012)

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UNI EN 14255-01 (2005) Misurazione e valutazione dell’esposizione personale a radiazioni ottiche incoerenti. Parte 1: Radiazioni ultraviolette emesse da sorgenti artificiali nel posto di lavoro

UNI EN 14255-02 (2006) Misurazione e valutazione dell’esposizione personale a radiazioni ottiche incoerenti. Parte 2: Radiazioni visibili e infrarosse emesse da sorgenti artificiali nei posti di lavoro

Direttiva 2013/35/UE del, del 26 giugno 2013, sulle disposizioni minime di sicurezza e di salute relative all’esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti dagli agenti fisici (campi elettromagnetici) (ventesima direttiva particolare ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 1, della direttiva 89/391/CEE) e che abroga la direttiva 2004/40/CE, Gazzetta ufficiale dell’Unione europea n. L 179 del 29/06/2013

Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81 e successive modificazioni (Testo Unico sulla Sicurezza) Attuazione dell’articolo 1 della Legge 3 agosto 2007, n. 123 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, Gazzetta Ufficiale n. 101 del 30 aprile 2008 – Suppl. Ordinario n. 108

1A livello nazionale manca per il momento un dispositivo di legge per la tutela delle esposizioni occupazionali ai campi elettromagnetici. Il Capo IV del Titolo VIII del D.Lgs 81/08, mai entrato in vigore, risulta infatti oggi abrogato, in quanto è stata abrogata la direttiva europea di cui rappresentava il recepimento.
2 NIR è l’acronimo di Non-Ionizing Radiation, utilizzato a livello internazionale per definire l’insieme delle radiazioni che il legislatore ha singolarmente chiamato campi elettromagnetici e radiazioni ottiche.
3 VLE è l’acronimo di Valori Limite di Esposizione.
4 Il testo di legge è: “La valutazione dei rischi è riportata sul documento di valutazione di cui all’articolo 28, essa può includere una giustificazione del datore di lavoro secondo cui la natura e l’entità dei rischi non rendono necessaria una valutazione dei rischi più dettagliata” (l’uso del termine giustificazione in questo comma ha introdotto nel gergo comune le espressioni sorgenti giustificabili ed esposizioni giustificabili).
5 Per completezza aggiungiamo che la stessa norma tecnica propone anche dei prospetti in cui la graduazione dei DPI oculari è correlata con la portata di acetilene (taglio ossiacetilenico) o con quella di ossigeno (ossitaglio). Tuttavia le portate dei gas di saldatura di solito non sono note in azienda e i sistemi di saldatura non sono normalmente equipaggiati con dispositivi conta-litri. Questi due prospetti (prospetto A.1 e A.2) possono risultare non utilizzabili e l’individuazione della graduazione degli oculari per il saldatore, in questi casi, necessita di conoscere i livelli di esposizione e quindi di acquisire delle misure; queste ultime saranno utilizzate per determinare la trasmissività degli oculari (rapporto tra il valore limite di esposizione applicabile allo specifico compito lavorativo e il livello di esposizione misurato) e a mezzo del generale prospetto n. 1 ne sarà individuata la graduazione.
6 Le due categorie sono talvolta identificate come quella dei campi a bassa frequenza e quella dei campi ad alta frequenza; si tratta tuttavia di una definizione impropria, considerato che entrambi comprendono la banda tra 100 kHz e 10 MHz che si compone di parte delle frequenze basse (LF: 30 – 300 kHz), delle medie (MF: 300 kHz – 3 MHz) e di parte delle alte frequenze (3 MHz – 30 MHz).
7 Usi industriali e medicali di campi elettromagnetici a queste frequenze comprendono ad esempio: la tempra e la fusione dei metalli a induzione, la saldatura delle plastiche, l’uso di radio ed elettro-bisturi, trattamenti medici ed estetici della cute.
8 Nelle istruzioni operative sugli agenti fisici (Coordinamento Tecnico per la Sicurezza delle Regioni e delle Province autonome, 2014) si trova un appendice dedicata ai rischi per la salute di lungo periodo dovuti alle radiazioni ottiche (Appendice 5.3) dove è spiegato che il rispetto dei valori limite di esposizione non previene totalmente il rischio di effetti a lungo termine indotti dall’esposizione cronica alla radiazione UV e il possibile danno retinico di natura fotochimica dovuto alla luce blu.
9 Questo almeno sino a quando non si sarà fatta chiarezza sui possibili danni di lungo periodo da luce blu anche per la cute, sui quali sono stati avviati alcuni studi.

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scarica l’articolo integrale in formato pdf:

G. Gambino, A. Merlino, G. Quadrio (2014) Il ruolo della misurazione nella valutazione del rischio da esposizione a radiazioni non ionizzanti: campi elettromagnetici e radiazioni ottiche, relazione a invito, atti del convegno dBA 2014 (Modena 17 settembre 2014); 7 – 23

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